Angelo Bordiga
Angelo Bordiga nasce a Bagolino (Brescia) agli inizi degli anni Sessanta. Nel paese della Valle del Caffaro, compie i primi studi, che prosegue poi nella città di Brescia. A distanza di alcuni anni, consegue a Cantù la maturità d’arte. Successivamente il suo percorso didattico si arricchisce con il diploma nella prestigiosa Accademia di Belle Arti di Brera. Terminati gli studi, continua a frequentare lo stimolante ambiente artistico milanese, partecipando a numerose mostre personali e collettive, collaborando inoltre con l’Istituto Grafico Italiano. In quegli stessi anni contribuisce, in qualità di pittore-scenografo, all’affermazione della Cooperativa dello spettacolo «Uscita di Sicurezza». A questo effervescente periodo, appartiene anche l’esperienza romana, che vede Bordiga partecipare da protagonista a svariate iniziative culturali ed artistiche: risalgono infatti a quella fase le mostre a Palazzo «Valentini», sede della Regione Lazio.
Con l’inizio del nuovo millennio, si apre l’esperienza bresciana connotata dal positivo recupero di nuovi, profondi stimoli artistici. Nell’ultima fase, il percorso di Bordiga è completamente assorbito dall’arte, tanto che si infittiscono le esposizioni e le rassegne presso prestigiosi centri. Sono di questi anni, tra le altre, le mostre tenute presso le gallerie «Mazzoni» di Piacenza, «Marchina» di Brescia, «Vecchiato Arte» di Padova, «Ca’ la Ghironda – Museo d’Arte Moderna» in provincia di Bologna e «ArtMoorHouse» di Londra.
Evanescenza, oli su tela, 120×80 cm
il sogno, olio su tela, 67×86 cm
L’attesa, olio su tela, 87×69 cm
Figura con cappotto blu, olio su tela, 40×40 cm
Dopo il bagno, olio su tavola, 47.5×47 cm
il sogno, olio su tela, 67×86 cm
Assenza, olio su tela, 70×50 cm
Donna pensierosa, olio su tvola, 47×46 cm
Assenza, olio su tela, 65×50 cm
Rosso, olio su tela, 100x80cm
Il gatto, olio su tela, 80x80cm
Il gatto 2019, olio su tela, 100 x 80 cm
Il divano giallo, olio su tela, 101×71 cm
Dopo il bagno, olio su tavola, 47.5×47 cm
Paesaggio, olio su tela, 40×40 cm
L’albero, olio su tela, 50x40cm
Passeggiata al crepuscolo, olio su tela, 70×50 cm
Angelo Bordiga
Figure alla soglia dell’indistinto
di Fausto Lorenzi
Le figure di Angelo Bordiga sono in attesa: in piedi, o rannicchiate su una poltrona, avvinte ad essa come a una zattera, schiacciate su un letto, mentre il vuoto che le assedia e risucchia ingaggia una lotta quasi affannosa con il pittore, che le vuole trattenere e inquisire, a chiedergli perché siano prigioniere dell’insignificanza. Le sorregge e conforta una poesia irritata e umana, sarcastica e pietosa, che si immerge fino in fondo nel bitume dell’esistenza, che è anche il suo colore, il nero inghiottente, il grigio plumbeo, il verde marcio, il giallo livido, il bianco sporco, il rosso che brucia. Sembrano far parte di un dramma appena accennato o che tarda a consumarsi, affacciate su una perdizione spaziale, perché gli spazi spogli, indeterminati o senza sbocchi, sono spazi di lotta con l’assenza. Spesso l’autore volge queste figure di spalle, già estraniate: è il sogno di una forma di pienezza umana col mondo, evocata nella sua essenza dentro la minaccia costante del dissolvimento, della cancellazione. Parrebbe che il pittore cerchi di trascinare le figure nel quadro come in una tana, con una forza che ingloba anche la sgangheratezza della forma.
Sono lavori compiuti, eppure crescono come studi per un ritratto, studi per un corpo umano, in prove ripetute d’assedi e affondi nella verità carnale e psichica delle sembianze, nella malinconia e nello struggimento dei corpi. In fondo ci vuole mostrare come siamo, in un realismo acre, nella secrezione dei giorni, protervi e vulnerabili nella carne, precari come un guizzo breve di torcia che arde nella notte. Immagini luminescenti che possono raccontare per metafora pulsioni del corpo, intermittenze del cuore, striature dell’anima, come d’una luce che in parte si perde, ma non è dimenticata.
L’arte non è un calco, è un luogo di resistenza.
Bordiga è un artista che insidia ogni normalità falsamente rassicurante. Lui, che sembrerebbe liberarsi da ogni soffocante grammatica precostituita, ha certo meditato la lezione dei grandi esistenziali del Novecento, maestri della sfigurazione come Giacometti affacciato sull’orrore del nulla e Bacon custode dei grumi di bava dell’umano, ma è così vagabondo da non essersi chiuso nella loro stessa cifra ossessionata, in quel suo andare invece dritto al fondo dell’evento pittorico, al di fuori d’ogni narrazione, d’ogni metafora, nella gestualità forte ed elementare, nella verità densa e umorale del colore, di tocchi eccitati, lividi e fermentanti. Non a caso, oltre al Goya sardonico e allucinato delle pitture nere, e tutti i nordici espressionisti dalle maschere ghignanti e dalle carni corrotte e dolenti, a partire da Munch fino a Gerstl, fa affiorare altre filigrane illustri, di maestri impressionisti (specie Manet e Dégas) e postimpressionisti, specie dell’età tra simbolismo e Art Nouveau, anche tratti guizzanti e dolci veleni di maestri dell’affiche Belle Époque, e persino di ritrattisti mondani nella Parigi a cavallo di due secoli, da Boldini a Sargent. Ma non sono mai prelievi, non sono citazioni, sono consonanze e allusioni a tutta la storia del ritratto che abbiamo attraversato, nelle pose, nelle tecniche, negli impasti: nelle ricette pittoriche, a cavarne il succo essenziale, tutta la concentrazione nel venire alla luce, come ha giustamente annotato Michele Tavola per il catalogo di una mostra nel 2015 a Padova.
Un artista le cui figure paiono invischiate beffardamente nella schiuma dei giorni, al limite dello sfaldamento, ma che sa anche essere compassionevole, lirico, dolce, a raccontare di un destino che pare non sopportarci più e ci lascia in forme slogate e smarrite, tra verità e fatuità. Per sondare gli ingredienti delle sue ricette pittoriche non guarda solo alla tradizione del moderno, non ha paura di affidarsi anche a lezioni di maestri antichi, soprattutto vorrebbe carpire a Rembrandt così avaro di effetti e di sprechi, il segreto della sua tremenda vitalità di corpi fatti baluginare a tratti e vissuti in condizione estrema: solo corpo e oscurità, in una lotta dove il pittore perde, muore e rinasce. L’arte non è un calco, è un luogo di resistenza.
Apparizioni fantasmatiche sulla scena della vita
Certo, si fa presto ad iscrivere Bordiga in quel largo filone di ritratto sperduto o alienato in uno spazio d’indeterminatezza e disagio: filone dell’outsider disceso da Bacon e relativa Scuola di Londra e interpretato in Italia tra gli anni Cinquanta e Sessanta del ‘900 dai cosiddetti realisti esistenziali, da antesignani come Francese e Sughi a Ferroni, Banchieri, Vaglieri. Ma è solo una bussola che indica una affinità e un sipario, diventato canonico, di pittura grigiastra e illividita o di luminescenza spiritata a imbozzolare la figura. Quello che gli interessa davvero è lo scontro tra il chiaro e lo scuro, che tiene in sospeso la figura tra presenza e assenza, prendendo corpo nel bilico tra il già detto – l’adesione a codici e fattezze definite, storicizzate – e il senso dell’esperienza, della vita come procedere di confini slittanti. Perciò in Bordiga si incontrano molte impronte del corpo: è una esplorazione delle tracce, secrezioni, sagome, ombre di una identità umana, del transito e del lascito di una presenza, come un addensamento energetico, un’apparizione sulla scena della vita.
Non si parla più di identità, perché oggi non pare più possibile essere nel corpo e insieme vederlo dall’esterno, come se l’aria che gli gira intorno fosse uno specchio che lo circonda e riflette. In fondo, il pittore vorrebbe che le sue creature venissero a noi da un anonimato perfetto, come fuochi fatui nel disordine dell’universo, nella consunzione del tempo che tutto divora come una silenziosa necessità.
Il dissolversi del segno e la ruminazione del colore partecipano della dissoluzione della coscienza, ma salvano un involucro struggente. Sicché l’umanità stralunata conserva una sua impronta di miserabile sacralità, dopo che l’autore ha scorticato tutte le illusioni. Le effigi sono trattate con carica espressionista, ma come pezzi informali, apparizioni medianiche.
La paura di esporsi a un giudizio fissato per sempre
Il vedere ci sembra un atto semplice che il nostro pensiero può facilmente controllare, ma la visione si rivela qualcosa di estremamente difficile da capire: un delirio? uno sprofondamento? Dentro qualsiasi luminosità si cela qualcosa di segreto, di buio; e da qualsiasi oscurità si muove alla caccia della luce. Si direbbe che, per l’occhio, il vedere troppo produca una sorta di abbagliamento, una cecità bianca. Sia la cecità, che l’abbaglio, ci tolgono la vista. Pare allora che per Bordiga il mondo appartenga alla zona intermedia, allo scambio tra il vedere troppo e il non vedere. Sa che c’è sempre un momento in cui un essere umano ha paura di esporsi ad un giudizio fissato per sempre, nel tempo. Per questo cerca una verità immediata, vivida e umorale del colore, assecondando anche sedimentazioni e scorie del supporto, tra deformazione grottesca e rimando alla carica accorata dell’espressionismo, per imbrigliare la figura sulla soglia tra il pieno e il vuoto, tra il chiaro e lo scuro, in sprazzi di luce bruschi, come guizzi febbrili ed estremi, di livida consunzione. Quando non esprime quest’ansia o perplessità in forme dense e urgenti, tra lampeggi e striature, lo fa in una sorta di svuotamento irreale, in una fissità allucinata.
In fondo la figura è materia che cresce e resiste all’indistinto intorno (il mistero dell’esserci, qui e ora) come qualcosa che vuole arrivare da sé alla forma. Per questo usa qualsiasi supporto gli capiti a tiro, dalle tele grezze, anche vecchie, arse e rugginose, a bianchi intonaci rugosi, agli scampoli alle vecchie lenzuola, persino ritagli di moquette, e lascia che i suoi figuranti (non li chiamo personaggi), una volta abbozzati, si macerino, sostino, inermi, straniti e incerti, lavorando a più dipinti in contemporanea, riprendendoli anche a distanza di tempo. Come se tra pittura dell’istante e brutalità del reale dovessero trovare da sé, appunto, la via di uscita alla luce, o la via di scampo da questo universo vischioso e stagnante, prima di attestarsi sul giusto confine tra l’essere e il nulla, con la giusta dose di enigmi e fantasmi che ne contrassegnano l’apparire al mondo.
Un concetto pittorico di presenza totale
Sono nudi distesi lascivi e intorpiditi, figure in piedi acri, risentite, come forzate sotto i riflettori, vecchi messi all’angolo su poltrone di contenzione, spose avvolte, anzi celate in eleganti increspature di bianchi che in quelle vesti di caglio o neve squagliata fanno trasparire anche un’ansia di innocente decoro in contrasto con la deformazione del reale (sono lumini cerulei prima della fiamma), come se l’autore da un’opera all’altra evocasse paradossalmente un ordine naturale, sulla scena di un teatro di biologia e di cicli vitali. Così anche nella grafica, caratterizzata da slancio e marcatura del segno nella messa a nudo dell’umanità, dietro una forma apparentemente rozza e rapida.
Quello su cui si interroga davvero la ricerca di Angelo Bordiga, per tentativi ruvidi e nervosi, è il concetto pittorico di presenza, una presenza totale e lancinante del dipinto come oggetto materiale, della lotta che l’artista sostiene per arrivare a quella immanenza sospesa dell’immagine: qui la via del realismo tracciata da Bacon si fa esplicita, così ostile all’aneddoto, così decisa a strappare la figura al figurativo, a ricondurla a testimonianza dell’apparire sulla scena del mondo. L’impatto con la pittura è proprio urgente, denso, fisico: Bordiga insegue proprio la traccia lasciata dall’esistenza umana con spruzzi di colore improvvisi come palpiti, urli o lamenti di vita trattenuti in corpo, soffocati. Come dicono le opere che si fanno sfocate e nebbiose, claustrofobiche addosso alla forma umana isolata: a suo modo incombente, monumentale, eppure sgranata. E cala anche il silenzio, come un pigmento di sostanza fisica, densa, spaesata e affaticata. Nessun compiacimento, nessuna seduzione. Solo scosse, disorientamenti, tensioni.
Anche nel rimeditare un soggetto sacro come una deposizione, in un corpo d’un biancore terreo di espressività scorbutica e insieme di compostezza quasi gemente, di nuda, spoglia struttura, di vita ridotta alla sua crudezza estrema, trasudante dalla tela come dal lenzuolo della Sindone.
Paesaggismo dell’anima, di sommessa musicalità
Ma Angelo Bordiga è anche pittore struggente di paesaggi, che sono quasi sempre grandi alberi solitari e si caratterizzano per una sostanza terrestre e organica, al limite dell’informale, che ora è fremito di impulso vitale, di immersione panica nella materia della natura, ora è partitura essenziale, col ritmo di un trasalimento della memoria, di luoghi abitati dal silenzio, in una spazialità introspettiva, paesistica e trasognata. E basta una colata esile di pittura per trasformare le radici di un albero in cicatrici di una natura che non è più patria dell’uomo. Ma ai paesaggi è concessa un’ostensione più morbida e pacata, più sottilmente intrisa di luce fonda. C’è anche un grande paesaggio, informe, di notte e terra, che respira in una sorta di tonalismo non naturalistico, di masse fluide dai contorni irrequieti: masse severe, meditative, respiranti, avvolte in un grande silenzio, che mirano a far sentire l’energia dello spazio.
La materia, la crosta fluida e virente degli oli, nei lavori su carta si trasforma e si fa più rarefatta in macchie e vapori che non perdono nulla di quello spessore emotivo, affiorando da una luce impedita, tenuta in sordina, ma che resiste tenace e fioca. È un paesaggismo dell’anima che si avvale di un lessico nudo, scabro, di sommessa musicalità, che nella sua partitura salva solo un lacerto, una reliquia o uno strazio di paesaggio, protetto in una sorta di nebulosa onirica, come in un elemento spirituale, magico, arcano.
Per Bordiga c’è solo da essere nella pittura, un rapprendersi e sfarsi, un abbandono sensoriale all’immagine e una immediata connotazione percettiva. La sembianza del corpo diventa la definizione del rapporto con lo spazio: la sovrapposizione della forma elementare e della forma universale. Queste figure sprofondano nella solitudine, ma in una solitudine che ne è salvezza e baratro insieme, sondando l’epifania della luce che spacca o vivifica la pasta d’olio, come se anche la speranza uscisse da una fenditura o violazione, fatta necessità vitale, della materia: una solitudine del giudizio, dato da sé stessi e dagli altri; una solitudine della responsabilità, nell’impossibilità di tenere insieme interno-esterno, nella sua vulnerabilità, se non in un barlume di fiaccola e in una manciata di polvere, invischiata nella tela del ragno che lascia macerare la sua preda in una secrezione fermentata e biliosa.
Già, più che il disagio dell’esistenza, Angelo Bordiga ferma sulla tela il disagio della pittura che vuole compromettersi con la vita, in queste interrogazioni sul ritratto, da misurare non per la conformità al modello, né per l’esercizio fisiognomico e psicologico, ma con tutto il peso della storia della pittura quando affida tutto quel che resta dell’umano alla materia di cui è fatta, a intercettare la strascicata corsa della luce, prima che s’accasci schiacciata dal peso della tristezza infinita d’un eterno indistinto grigiore.
Angelo Bordiga
CORPI COME PAROLE
Ombre solitarie o forse sagome assorte, guardinghe, quasi a voler scrutare la vita senza lasciarsene del tutto assorbire.
I soggetti di Angelo Bordiga, sono votati all’introspezione, alla ricerca di significati non chiaramente visibili. Sono figure che scorrono, superando la fissità degli attimi ma, spesso, proprio in essi, rinvenendo nuovi spunti di riflessione.
A “parlare” è la stessa postura nella quale vengono identificati e poi proiettati sulla tela. Corpi che trasmettono parole, per farsi avvinghiare in momenti di suadente intensità.
Affiora con essi un’indole pensosa, assorta, che non tocca mai però le sfere del tormento. Si tratta piuttosto di momenti di solitudine in cui contemplare con la dovuta distensione, universi che camminano paralleli all’io e con questo però tendono a confrontarsi ogni qualvolta ve ne sia occasione. Non sono tuttavia soggetti avulsi da un contesto terreno, presenze sovrannaturali; sono “persone” che incontriamo tutti i giorni, che avremmo rivisto voltandoci una volta di più ma che a volte fingiamo di non riconoscere.
Sono “angeli” che vivono la nostra stessa vita riuscendone a filtrare, forse con più accortezza , gli inganni e le illusioni.
STEFANIA VITALE “DENTRO CASA “ dicembre 2005