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yayoi kusama

Yayoi Kusama è oggi considerata fra i più importanti artisti giapponesi contemporanei. Ha lavorato in una vasta gamma di discipline: arti visive, danza, moda, design fino alla scrittura e alla composizione musicale.

La sua produzione abbraccia la corrente surrealista, l’Espressionismo astratto, il Minimalismo, l’Art Brut, la Pop Art, la Land Art e persino lo Psichedelismo.

Ma è scavando nel suo vissuto più remoto che troviamo la chiave interpretativa del suo percorso artistico. Fin da piccola Yayoi soffre di disturbi ossessivo-compulsivi e allucinazioni plurime dovute a perpetrate violenze domestiche.

Durante una crisi, all’età di 12 anni, il motivo a fiori rossi di una tovaglia da tavola comincerà a riprodursi all’infinito nella stanza, popolando da allora in poi il suo universo in modo ossessivo.

Pois e fiori giganti, reti, protuberanze molli e forme falliche. Sarà la riproduzione, la moltiplicazione e l’aggregazione ossessiva di questo ristretto vocabolario di forme la firma stilistica delle sue opere.

Distese di zucche maculate, grappoli di falli, ossessivi pois, ramificazioni, tentacoli che svettano da terra e tentacoli annodati di mille colori incandescenti, piante e fiori che si spingono fino al soffitto: sono tra le immagini più iconiche e rappresentative di Yayoi Kusama, un’artista dall’incredibile storia personale, fatta di sofferenza fisica e psichica, successo, oblio e una meritoria riscoperta negli ultimi anni da parte della critica internazionale.

Nel 1958, a 29 anni, Kusama fugge da dall’incomunicabilità con la madre, da un padre fedifrago che era costretta a spiare e da un Giappone intossicato dal patriarcato – in valigia, sessanta kimono e duemila fra disegni e dipinti da vendere.
Approda a New York, la “naked city”, che dopo gli inizi fatti di stenti la consacra – anche grazie al patrocinio di Andy Warhol – come una delle artiste più innovative del suo tempo e come la regina degli hippie e del pacifismo, icona delle lotte contro il sessismo e il tradizionalismo, pur non avendo mai partecipato attivamente al movimento femminista.

In quel periodo Yayoi Kusama arriva al cuore del suo linguaggio artistico e lo espande oltre lo spazio bidimensionale della tela, resta sepolta nel processo creativo e giunge a quella che lei chiama “obliterazione”, fino a esplodere in tutto il suo potenziale artistico. Sino al 1973, anno del suo rientro in Giappone, la sua produzione è intensissima: il suo mondo fatto di “puntini”, la sua ricerca artistica fortemente influenzata dall’infanzia trascorsa a Matsumoto con la famiglia, l’approdo a performance provocatorie e osé in cui il corpo umano entra a far parte dell’opera d’arte e diventa esso stesso – attraverso il body painting di cui Kusama è negli anni Sessanta geniale esponente – oggetto artistico da fruire, divengono segno distintivo dell’artista, all’accrescimento della cui mitologia contribuiscono i disturbi psichiatrici dai quali rimane affetta tutta la vita.

Dopo aver invaso le gallerie e dominato la scena artistica per tre lustri, Kusama trova il coraggio di tornare in Giappone: la bulimia creativa degli anni precedenti cede il passo alla rovina spirituale e ai disordini mentali che ne avevano da sempre minato la stabilità (“depersonalizzazione”, le avevano detto gli psichiatri), sino al ricovero volontario nell’ospedale psichiatrico di Seiwa, dove tenta il suicidio.

Sono anni bui, di depressione e sperimentazione, l’unica medicina efficace è l’arte – un’arte fatta di dolore e conflitto – che non l’abbandona mai. L’artista trascorre un ventennio di oblio, dimenticata dall’America che l’aveva osannata, durante il quale riesce a risalire la corrente della perdizione trasformando le sue paure e le sue ansie in paesaggi astratti ricchi di colore. Nel 1987 il Giappone la riabilita con una retrospettiva presso il Museo d’arte del Kita-Kyushu a Fukuoka. Due anni più tardi è la volta degli Stati Uniti: il CICA di New York le dedica “Yayoi Kusama: A Retrospective”, curata da Alexandra Munroe e Bhupendra Karia. L’evento colloca Kusama al posto che le spetta nella Storia dell’arte contemporanea e il 1993 è la volta della sua partecipazione (la seconda, per la verità) alla Biennale di Venezia.

Oggi, novantenne, Yayoi Kusama vive per volontà personale nell’ospedale psichiatrico di Seiwa e dipinge quasi quotidianamente nel suo studio a Shinjuku.

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