Lo shibari o kinbaku, è un’arte giapponese che adotta l’hojōjutsu, ovvero l’atto di legare una persona. Esso può avere diversi fini, tra i quali il rilassamento del corpo e della mente, una forma artistica di scultura vivente, o una pratica sessuale.
La cultura dello shibari ha radici molto antiche. Nelle tradizionali cerimonie religiose giapponesi è sempre stato usuale includere corde e legamenti per simboleggiare il collegamento tra l’umano e il divino.
Lo shibari nacque nel XV secolo, utilizzato dalla polizia e dai samurai come forma di prigionia, e come tale rimase fino al XVIII secolo. Allora le risorse di metalli scarseggiavano, mentre in compenso abbondavano le funi di canapa e iuta: così spesso i prigionieri non venivano rinchiusi in una prigione, bensì venivano semplicemente immobilizzati con una corda. La polizia giapponese continua a portare nei propri furgoni un fascio di corda di canapa.
Quando si trattava di legare un nobile o un samurai c’era sempre un elemento artistico, mentre determinate forme e disegni fatti con la corda indicavano agli spettatori la classe sociale dell’accusato (nel Giappone dell’epoca la divisione in classi sociali era molto rigida) e, a volte anche il crimine commesso.
Lo shibari è il bondage con corde in stile giapponese, una pratica che consiste nel creare legature erotiche con corde sul corpo di una persona. Le sue origini sono da ritrovare nell’hojojutso, l’arte marziale che prevede l’utilizzo di corde per bloccare e immobilizzare l’avversario; in seguito, intorno al 1700, queste tecniche hanno assunto una connotazione erotica quando si è iniziato a utilizzarle in ambito artistico in alcune scene del teatro kabuki o nella produzione di stampe a tema.
Sarà però solo nel periodo tra le due guerre – e più ancora nel dopoguerra – che, soprattutto grazie alla figura di Itoh Seiyu, lo shibari diventa una pratica a se stante, connotata chiaramente in senso erotico e sadomasochistico. L’inizio del XX secolo vide il Giappone impegnato a diventare una nazione moderna, tuttavia il passato era sempre presente nell’immaginario collettivo e affascinò autori e artisti come il giovane Itoh Seiyu, considerato il “padre del kinbaku”.
Artista particolare e molto discusso, fu lui a dare vita all’arte del bondage, attraverso i suoi quadri. Per rappresentare le torture tipiche del periodo Edo, legava i suoi modelli in varie posizioni, li immortalava e da tali fotografie traeva ispirazione per i suoi quadri.
Si diffonderà infine in Occidente dopo la seconda guerra mondiale in seguito alla quale lo shibari sarà conosciuto prima negli Stati Uniti e di lì in tutto il mondo, determinando anche lo sviluppo di stili diversi.
Kinbaku è invece un termine più recente la cui prima occorrenza scritta è in una rivista giapponese nel 1952. Esso significa “legare stretto”; “kin” significa infatti “stretto, deciso, stabile” e “baku” è un’altra lettura del kanji che può essere letto anche “shiba” (come in 縛り,shibari). Secondo alcuni maestri non esiste differenza tra shibari e kinbaku; secondo altri invece “shibari” sarebbe semplicemente realizzare delle legature in stile giapponese, mentre “kinbaku” farebbe riferimento al legare ma con in più la profonda connessione emotiva e tutti gli aspetti relazionali che si vengono a creare tra chi lega e chi è legato.
Una cultura erotica complessa, dove rimanere avvinti ad una corda nel vuoto, un corpo contro l’altro, pelle a pelle coordinando perfettamente i movimenti per rimanere in equilibrio. Un arte dove la ritualità dei gesti, gli sfioramenti delle mani e delle corde sulla pelle del partner, l’abbandono completo costituiscono un preludio sensuale e complice al rapporto amoroso. La cosa, a chi ama il genere, dà piacere ed eccitazione. Ma sicuramente richiede molta esperienza ed attenzione, per non sfociare nella tragedia.
Legare è una pratica molto comune in Giappone, estremamente radicata nella cultura e nella quotidianità: dall’arte di confezionare pacchetti regalo, all’allacciatura dei kimono mediante la fascia chiamata obi.
Una nota particolare merita la pratica del Mizuhiki, che consiste nell’utilizzare piccoli cordini per decorare le buste di carta contenenti messaggi di auguri, ringraziamenti o condoglianze per amici e conoscenti.
La pratica del Mizuhiki risale all’era Heian (794-1185) quando le donne della corte impararono l’arte di creare nodi decorativi per regali e lettere.
I nodi avevano un significato ben preciso, un po’ come avveniva in Europa durante il medioevo con il “linguaggio dei fiori”, che ha poi fatto sì che la rosa rossa sia associata all’idea dell’amore passionale. Durante l’era Edo (1611-1868) questi laccetti furono utilizzati per le acconciature tipiche dei samurai. Ancora oggi il Mizuhiki è utilizzato durante i matrimoni, per decorare i tavoli o altri ornamenti, abiti e capelli della sposa. Inoltre alcuni artisti usano questa tecnica per creare vere e proprie sculture celebrative.
Anche in ambito religioso, la storia del Giappone ha numerosissimi riferimenti all’uso delle corde e dei nodi. Le corde Shimenawa sono disposte di solito sulle porte (i Torii) dei templi Shinto e di anche su altri oggetti sacri come alberi e rocce.
Persino nel Sumo, i lottatori indossano delle cinture cerimoniali decorate con corde che riproducono le Shimenawa dei templi. Le movenze e i rituali prima dell’incontro servono a scacciare gli spiriti cattivi e ad invocare l’arrivo degli Dei benefici.
Anche il Buddismo, seppur in misura inferiore rispetto allo Shintoismo, fa un utilizzo simbolico dei nodi.
Il pittore, usava molto spesso la sua seconda moglie come modella. Famoso è l’episodio in cui l’artista volle riprodurre la scena della tortura “Yoshitoshi” in “Oshu Adachigahara hitotsuya non zu (La casa di Adachigara a Oshu), perciò lasciò la consorte sospesa a testa in giù dalle travi, durante la gravidanza.
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